Mimì e i diniegati

Amina è arrivata nella baraccopoli di San Ferdinando nel gennaio di quest’anno.

San Ferdinando è a due passi da Rosarno in Calabria.

E’ quel posto dove vivono, si fa per dire, quelli che raccolgono le arance e i mandarini nella piana di Gioia Tauro. E’ anche quel posto dove ogni tanto qualcuno muore.

L’ultimo in ordine di tempo, a giugno, è stato Soumaila Sacko, quel ragazzo del Mali a cui hanno sparato una fucilata mentre raccoglieva da una fabbrica abbandonata delle lamiere per rinforzare il tetto precario sotto cui dormiva.

Amina a San Ferdinando era arrivata da una manciata di giorni. Sono bastati per ritornare a prostituirsi nelle mani della mafia nigeriana e per morire nel grande incendio che ha divorato in una notte duecento baracche.

Era il 27 gennaio.

Quattro mesi dopo, il 25 maggio, dall’altra parte dell’Aspromonte, a Riace, ad un’ora di macchina da San Ferdinando, è una bella giornata di sole.

Nel cimitero ci sono il prete, gli amici, i conoscenti a dare l’ultimo saluto a Becky Moses. La ricordano tutti sempre sorridente in quei due anni che aveva passato in paese.

Al cimitero c’è anche il sindaco, che si chiama Domenico Lucano. Mimì o Mimmo per quasi tutti. E’ quello che hanno messo oggi agli arresti domiciliari per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.

Nel comunicato della Procura di Locri si sottolinea come Mimì fosse parecchio “spregiudicato” (hanno scritto così) nel cercare di far rimanere a Riace quelli che erano “diniegati“, che è uno di quei termini disgraziati con cui la burocrazia indica quelli a cui viene rifiutato il permesso di soggiorno per motivi umanitari o il diritto d’asilo. I “diniegati” sono come fantasmi: senza documenti, senza diritti, senza possibilità, abbandonati alla legge del più forte o del più furbo.

Pur di non perdere qualcuno, di non abbandonarlo, Mimì era disposto a fare “carte false”. Forse anche letteralmente. Anche a far sposare qualcuno, magari per finta.

Anche a Becky Moses Mimì aveva fatto i documenti. C’è la sua firma sulla carta d’identità della ragazza.

La data è il 21 dicembre 2017.

Una settimana dopo Becky deve andarsene da Riace come molti altri. I soldi dal ministero non arrivano, lei è una “diniegata”, Mimì deve chiudere parte dei centri d’accoglienza.

Di Amina, dopo il rogo di San Ferdinando, nessuno reclamerà il corpo o quello che resta.

Troverà riposo solo quando Domenico Lucano, detto Mimì, deciderà di riportarla a casa, a Riace.

Quel giorno di sole di maggio al funerale nel piccolo cimitero Domenico Lucano si toglierà la fascia di sindaco. Mimì sente tutto il peso della responsabilità di aver permesso che Becky, in meno di un mese, passasse dalla vita di Riace alla disperazione e alla morte di San Ferdinando.

Amina era Becky, una mese prima, una vita prima.