Astroturfing da crociera

La paura è già finita… le crociere fanno il pieno” titola “Il Giornale“.

Costa, nonostante gli incidenti prenotazioni in aumento” chiosa “La Repubblica“.

Quelli di Costa Crociere sono anche da capire, vista la situazione. Però almeno si mettano d’accordo con la “casa madre” che non più di due settimane fa dava dei numeri un po’ diversi : 80-90% in meno di prenotazioni nel primo mese dopo l’incidente della Costa Concordia e 40-50% a marzo.

Tibet : immolazioni, foto e spam

Sono critiche le condizioni di Jamphel Yeshi, esule tibetano di 27 anni che ieri si è dato fuoco a Delhi come estremo gesto di protesta verso il governo cinese.

A differenza delle auto-immolazioni che sono avvenute in Cina, di quella di Jamphel Yeshi (avvenuta in India) esiste un’ampia e tragica documentazione video-fotografica.

Intanto è ripresa su Twitter l’intesa attività di spam anti-tibetana di hashtag come #tibet e #freetibet.

Occupazione

Ignoravo l’esistenza dell’industria “del posto in fila” e del relativo mercato del lavoro. Invece basta cercare linestanding.

Se vi manca internet in Papua Nuova Guinea

<%image(velocita-adsl.jpg|901|655|velocità adsl papua nuova guinea)%>Nel caso un giorno vi venga voglia di fare il salto grosso e trasferirvi dall’altra parte del mondo su un’isola nel Pacifico, non statevi a preoccupare troppo: secondo Net Index in Papua Nuova Guinea l’adsl va più o meno come in Italia.

(cliccare per ingrandire immagine)

Kony2012: la verità non basta

I miei due centesimi sulla faccenda kony2012.

I fatti. Tre allegri ragazzi californiani nel 2003 partono per il Sud Sudan e finiscono, come spesso accade, ad appassionarsi ad un’altra storia e ad altre persone: l’Uganda e i bambini soldato. Ne viene fuori un documentario e una ONG. Niente di straordinario. Nel 2012 (ossia adesso) dopo nove anni di attività ottengono una visibilità globale grazie ad un video su Youtube.

Un nome. Grazie a Kony2012 molti milioni di persone oggi sanno chi è il criminale di guerra Joseph Kony. Non dico la casalinga di Voghera, ma molte persone. Non ci si può lamentare.

Il film western. L’approccio alla questione Uganda è molto americano, nel bene e nel male. Qualcuno dice colonialista, ma forse esagera. Diciamo hollywoodiano.

Per raccontare la loro storia quelli di “Invisible Children” avevano bisogno di buoni e cattivi. Il bianco e il nero. Le sfumature di grigio di cui spesso la realtà è fatta non funzionano molto bene nelle campagne di mobilitazione. E nemmeno nel marketing, anche se “sociale”. Da questo punto di vista Joseph Kony è il cattivo perfetto (per il ruolo dei buoni invece il casting in Uganda è un po’ più complicato).

Le pulci e le tazze di Tè. La visibilità si porta dietro molta responsabilità. Devi aspettarti che qualcuno ti faccia le pulci un po’ su tutto: dalle esagerazioni, alle foto improvvisate, ai bilanci pasticciati.

I precedenti non mancano. Da questo punto di vista la vicenda di Greg Mortenson è un esempio purtroppo perfetto.

Perchè per Kony2012 forse vale quello che dicono in quel film di Hollywood: a volte la verità non basta, a volte la gente merita di piu’, a volte la gente ha bisogno che la propria fiducia venga ricompensata.

L’effetto dell’Oceano di Saggezza

Partiamo dalla fine: del destino del Tibet e dei tibetani non importa a nessuno. O quasi.

Non importa alla comunità internazionale, perchè i tibetani a stare larghi sono rimasti in 6 milioni e la Cina è a quota 1 miliardo e trecento milioni di abitanti con relativo Pil.

Non importa più di tanto ai media, perchè con tutta questa non-violenza non ci si fanno i titoli in prima pagina. Ecco, magari se aumentiamo il numero di immolazioni e riusciamo a procurarci qualche foto, una undicesima pagina “sezione esteri” o venti secondi dopo il servizio sull’accoppiamento dei pinguini della Patagonia lo strappiamo.

Ad occuparsi di Tibet è rimasta la diaspora tibetana, Richard Gere e quei colossali rompiballe dei Radicali che, da che mondo e mondo, se intravedono una causa persa ci si infilano a testa bassa.Radicali che sono riusciti in questi giorni di anniversari a far approvare in qualche decina di Consigli Regionali una mozione pro-Tibet con esposizione di bandiera annessa.

Anche la Regione Emilia Romagna ha approvato all’unanimità una risoluzione pro-Tibet questa volta presentata dal Partito Democratico. Per risparmiare tempo ed energie hanno copia-incollato la mozione della Camera dei Deputati dove si impegnava la giunta a “sollecitare il Governo, nel quadro dell’imminente Vertice UE-Cina, ad un passo formale affinché nella Repubblica Popolare Cinese vengano immediatamente interrotte le violenze nei confronti della popolazione e dei religiosi tibetani”.

Lodevole.

Al vertice Ue-Cina ovviamente nessuno si è azzardato a parlare di Tibet per ragioni abbastanza note, ma lo sforzo dell’Assemblea Regionale sarebbe stato comunque vano: il vertice si è svolto il 14 febbraio, la risoluzione l’hanno approvata il pomeriggio del 28 febbraio. Alle volte si sottovalutano le insidie del copia-incolla.

Perchè in Italia la vicenda tibetana è ormai diventata un esercizio sopraffino di paraculaggine.

Prendete la più grande azienda di questo paese.

Nel 2008 per la pubblicità della Lancia il gruppo Fiat arruolò Richard Gere e confezionò uno spot con un sacco di monaci, yak, montagne, la copia sputata del Potala di Lhasa e il riflesso del sosia di Tenzing Gyatso (al secolo il 14° Dalai Lama). Non lo ricordate ? E’ questo.

Qualche giorno dopo all’ufficio stampa della Fiat tocco pubblicare con urgenza un comunicato.

Avevano fatto uno spot ambientato in Tibet con il più noto attivista pro-Tibet al mondo e adesso dovevano chiedere scusa alla Repubblica Popolare Cinese: “Il Gruppo Fiat riafferma la propria neutralità in merito a qualsiasi questione politica, sia essa nazionale o internazionale”. Scusateci era solo marketing, del Tibet sinceramente non ce ne sbatte nulla.

Poi c’è la gara, a tratti commovente, ingaggiata dai diversi Presidenti del Consiglio nell’evitare incontri anche fortuiti con il Dalai Lama. Pensare che l’ultimo ad incrociarlo fu Berlusconi nel 1994 non mette certo di buon umore: chissà che idea si è fatto il povero Tenzing. E sopratutto che barzelletta gli avrà raccontato Silvio nostro ?

La vicenda tibetana sul piano diplomatico è ormai ridotta a farsa. I tibetani sono buddisti e i buddisti stanno simpatici all’opinione pubblica occidentale (mica come quei disgraziati di Uiguri che tra l’altro sono musulmani). D’altra parte i cinesi sono piuttosto sensibili sul tema. Che si fa ? Tendenzialmente quelli furbi che, un colpo qui e un colpo là, badano al sodo ovvero al portafoglio. Qualche tempo fa uno studio di una università tedesca ha stimato “l’effetto Dalai Lama”: nei due anni successivi all’incontro con l’Oceano di Saggezza la nazione ospitante perde esportazioni verso la Cina con percentuali stimabili tra l’8 e il 17%.

E quindi vanno bene le risoluzioni, le bandiere, i sit-in e i gesti simbolici (anche scemi, come tendenzialmente quelli dello scrivente), ma il Tibet è una faccenda dannatamente importante e complessa che ci riguarda da molto vicino.

Non è solo questione di geopolitica o di risorse. E’ molto di più.

Il popolo tibetano così geograficamente e culturalmente periferico è un granello di sabbia come molti altri.

Ma è un granello che ha la forza di inceppare una macchina gigantesca.

Riconoscere una qualche forma di autonomia alle comunità tibetane sparse nell’immenso altipiano (la maggior parte degli scontri si concentra oggi fuori dalla Regione Autonoma del Tibet) vuol dire innestare nel cuore di una nazione con 56 etnie il virus della democrazia.

Un virus pericoloso.

Quello che ci dicono quei ragazzi e ragazze, spesso giovanissimi, che si danno fuoco in mezzo ad una strada è che non tutti sono disposti ad accettare il progresso senza diritti, il benessere senza la libertà.

E’ un concetto che può mandare a gambe all’aria la Cina come fabbrica del mondo e sgretolare il teorema su cui si regge: sviluppo e ricchezza senza diritti.

Roba che fa tremare i polsi.

E non solo ai cinesi.

Cosa ci dicono i coyote del Canada

<%image(lupi.jpg|720|540|newdoundland coyote canada)%>Poco fa, casualmente, la mia attenzione è stata catturata da una foto condivisa su Facebook.

E’ l’immagine qui a lato.

Se ne trovano a migliaia in Rete e sui social network nelle campagne animaliste, o contro la caccia, o contro il maltrattamento di cani o altre specie.

Ma proprio questa sua “normalità” è forse utile per qualche riflessione sparsa che con l’animalismo o la caccia hanno poco a che fare.
Una foto, mille parole. Un’immagine si porta dietro una storia e molte parole. Parole che servono a spiegare meglio. Perchè l’apparenza alle volte inganna. Quando in Rete ci si imbatte in un fatto o in una foto “strana” occorre sempre un principio di precauzione. Le bufale sono sempre dietro l’angolo. E’ bene in questi casi farsi delle domande semplici: chi, cosa, quando, dove, perchè.

Le bugie hanno le gambe corte, ma sette vite. Le bufale trovano su internet veloce diffusione, ma la Rete ha strumenti efficaci per ricostruire i fatti nel modo corretto, basta un po’ di volontà e buon senso.

Quelli che ci mettono la faccia. Molti in buona fede (altri in pessima) hanno sostenuto in questi anni che l’anonimato su internet non favoriva una discussione pubblica corretta e civile. L’avvento di Facebook ha dimostrato innumerevoli volte che metterci la faccia non migliora la qualità. Anche nel caso della nostra foto troviamo centinaia se non migliaia di insulti pesanti, auguri e minacce di morte firmati con nome e cognome.

Fanno dei giri immensi e poi ritornano. I percorsi in Rete di una foto, una notizia, un tweet o un qualsiasi pezzo di bit sono davvero imprevedibili. Tenerlo a mente quando si decide di condividere qualcosa su internet è una buona cosa.

Prima i fatti. Accertare come stanno in realtà le cose e poi discutere dovrebbe essere la normalità. Discutere di qualcosa su fatti inesistenti o inesatti è uno spreco di energie e intelligenza.

E veniamo alla nostra benedetta foto e alla sua storia.

E’ stata postata venerdì sera su una pagina dedicata alla Sardegna. Fino a questo momento (domenica 4 marzo primo pomeriggio) è stata condivisa da circa 2.300 persone e commentata da 5.200.

Non ritrae, come quasi tutti pensano e commentano, una strage di lupi ma la cattura di una ventina di coyote nell’isola di Newfoundland in Canada. (Terranova per intenderci).

La caccia anche con trappole (come in questo caso) del coyote è permessa e ampiamente regolamentata dalle autorità per mantenere un certo equilibrio nell’ecosistema. Serve una licenza, si può cacciare solo in determinate stagioni (20 ottobre – 1 febbraio), si fanno corsi, sono proibiti alcuni tipi di cattura.

Dalla metà degli anni ottanta l’eastern coyote (che è più grosso dei normali coyote) è stato oggetto di diversi studi e monitorato. E’ per questo che alcuni esemplari della foto sono dotati di radiocollare.

Ovviamente davanti alla foto ognuno, secondo la propria sensibilità, è libero di indignarsi. Ma per la morte dei coyote e non per i lupi.

Nell’isola di Newfoundland il lupo è stato dichiarato estinto nel 1930.