Quella volta con l’Aids

Nel luglio del 1983 su un piccolo quotidiano dell’India, il Patriot, fu pubblicata una lettera non firmata dal titolo “L’Aids può invadere l’India”. A scriverla una “gola profonda” che si identificava come un noto scienziato ed antropologo americano.

Nell’articolo si faceva riferimento al virus dell’HIV come ad un’arma biologica creata nel laboratorio statunitense di Fort Detrick in Maryland. Gli esperimenti americani, si affermava, continuavano anche nel vicino Pakistan, mettendo a rischio anche l’India.

Nell’estate del 1986, tre anni dopo, il professor Jakob Segal, dell’università berlinese di Humboldt, diffuse un rapporto dal titolo “Aids: la sua natura e la sua origine” dove si sosteneva che il virus dell’HIV fosse l’esito di una sintesi artificiale tra altri due retrovirus, Visna (un virus presente nelle pecore) e l’HTLV-1 (un retrovirus umano) effettuata nel laboratorio di armi biologiche di Fort Detrick in Maryland. Il nuovo virus si era diffuso fuori dal laboratorio per sbaglio, tramite i primi test effettuati su volontari reclutati tra i carcerati.

Nell’ottobre del 1986 la tesi del professor Segal fu ripresa dal tabloid britannico Sunday Express in un articolo dal titolo “L’Aids fabbricato in laboratorio”. Da lì la notizia cominciò il giro del mondo in ottanta nazioni e trenta lingue.

Finì anche per creare diverse tensioni diplomatiche, non solo tra Stati Uniti e Unione Sovietica, ma anche tra Usa e molti paesi africani, che si erano sentiti colpevolizzati dall’accostamento del continente come origine primaria dell’Aids.

Poi il tempo passò.

Il Muro di Berlino venne giù e Vasilij Nikitič Mitrokhin decise di fare un salto all’ambasciata britannica a Riga portandosi dietro la sua preziosa cassa strapiena di fogli e appunti.

Vennero fuori così moltissime storie di spionaggio e tra questa anche quella della curiosa “Operazione Infektion”, che poi in verità non si chiamava veramente così.

Era la storia di come il KGB (che era anche il socio di maggioranza occulto del quotidiano indiano Patriot) avesse messo in piedi un’operazione di disinformazione coordinandosi con tutti i servizi segreti dell’ex cortina di ferro.

I tedeschi della Stasi, che di queste faccende se ne intendevano, l’avevano ribattezzata “Operazione Denver”. Erano stati loro a mettere in piedi il teatrino del professor Segal.

Ancora nel 1992 un sondaggio certificava che il 15% degli americani era certo che l’Aids fosse stato creato in laboratorio.

Non è dato sapere se fra quel 15% ci fosse Donald Trump.

(ps: fotografare un pipistrello in volo è una faticaccia, ve lo assicuro)

Portatevi solo l’essenziale

Io e V. ci incontravano ogni giorno, più o meno nello stesso punto, in orari improbabili anche con meteo instabili.

Lì al confine di tutto, soli nel silenzio delle cose umane, ci scambiavamo i saluti di rito.

“Ciao nàno !”

Per chi non è pratico di quest’angolo d’Emilia profonda, “nàno” è un saluto affettuoso che si rivolge a quelli giovani giovani, anche se poi giovane non sei più.

Parlavamo del più e del meno, non dei massimi sistemi. Quelle magnifiche chiacchiere veloci e sfuggenti dei tempi ordinari.

Poi ognuno per la sua strada: io in mezzo ai campi con la pelosa bestia a quattro zampe e lei a trovare R.

“Salutamelo” le dicevo ogni tanto.

Oggi, dopo diversi giorni, ho incontrato V.

Non eravamo al confine di tutto, ma in mezzo al paese per le faccende che ordinanze e decreti definiscono essenziali. Le nostre non sono state quelle magnifiche chiacchiere veloci e sfuggenti dei tempi ordinari.

Dobbiamo essere isolati, lo dobbiamo a noi stessi e agli altri.

Ma spesso le regole, i divieti, le prescrizioni, via via crescenti, hanno scambiato isolamento e distanziamento sociale per confinamento. E spesso, in realtà diverse, si finisce con l’effetto contrario: a concentrare le persone, non a isolarle.

Non ha lunga vita quest’idea di confinamento, non la può avere. Non l’ha per il tempo che, da subito, sapevamo di dover affrontare.

E allora forse è necessario iniziare a pensare a come prendere le misure con il futuro e ridefinire, quando possibile, il concetto di essenziale e come gestirlo.

“Salutami R.” vorrei tornare a dire prima o poi.

Anche se R. se n’è andato da un pezzo e V. può tranquillamente accarezzarlo, incurante delle distanze.

Lì, al confine di tutto, sono soli nel silenzio delle cose umane.

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Questa cosa dei cimiteri chiusi dovremo affrontarla e risolverla con regole civili e razionali, perché nàno, l’essenziale (come dice più o meno quel libro molto popolare) può essere invisibile agli occhi.

 

 

Al Boscaccio non moriva mai nessuno

Io devo dirvi che il Boscaccio era un paese dove non moriva mai nessuno, per via di quell’aria straordinaria che vi si respirava.

Al Boscaccio sembrava quindi impossibile che un bambino di due anni potesse ammalarsi.

Invece Chico si ammalò sul serio. Una sera, mentre stavamo per tornare a casa, Chico si sdraiò improvvisamente per terra e cominciò a piangere. Poi smise di piangere e si addormentò. Non si volle svegliare e io lo presi in braccio. Chico scottava, sembrava pieno di fuoco: allora noi tutti provammo una paura terribile. Il sole tramontava e il cielo era nero e rosso, le ombre lunghe. Abbandonammo Chico in mezzo all’erba e fuggimmo urlando e piangendo come se qualcosa di terribile e di misterioso ci inseguisse. «Chico dorme e scotta… Chico ha il fuoco dentro la testa!» singhiozzai io appena mi trovai davanti a mio padre.

Mio padre, lo ricordo bene, staccò la doppietta dalla parete, la caricò, se la mise sottobraccio, e ci seguì senza dir nulla, e noi camminammo stretti attorno a lui e non avevamo più paura perché nostro padre era capace di fulminare un leprotto a ottanta metri di distanza.

Al Boscaccio non moriva mai nessuno, e quando la gente seppe che Chico stava male, tutti provarono un enorme sgomento. Anche nelle case si parlava sottovoce. Per il paese bazzicava un forestiero pericoloso e nessuno di notte si azzardava ad aprire una finestra per paura di vedere, nell’aia imbiancata dalla luna, aggirarsi la vecchia vestita di nero e con la falce in mano.

Mio padre mandò a prendere col calessino tre o quattro dottori famosi. E tutti toccarono Chico e gli appoggiarono l’orecchio alla schiena, poi guardarono mio padre senza dir niente. Chico continuava a dormire e a scottare, e il suo viso era diventato più bianco del lenzuolo.

Mia madre piangeva in mezzo a noi e non voleva più mangiare; mio padre non si sedeva mai e continuava ad arricciarsi i baffi, senza parlare. Il quarto giorno i tre ultimi dottori, che erano arrivati insieme, allargarono le braccia e dissero a mio padre: «Non c’è che il buon Dio che possa salvare il vostro bambino».

Ricordo che era mattina: mio padre fece un cenno con la testa e noi lo seguimmo nell’aia. Poi con un fischio chiamò i famigli: erano cinquanta fra uomini, donne e bambini.

Mio padre era alto, magro e potente, con lunghi baffi, un grande cappello, la giacca attillata e corta, i calzoni stretti alla coscia e gli stivali alti. (Da giovane mio padre era stato in America, e vestiva all’americana.) Faceva paura quando si piantava a gambe larghe davanti a qualcuno. Mio padre si piantò a gambe larghe davanti ai famigli e disse: «Soltanto il buon Dio può salvare Chico. In ginocchio: bisogna pregare il buon Dio di salvare Chico».

Tutti ci inginocchiammo e cominciammo a pregare ad alta voce il buon Dio. Le donne dicevano a turno delle cose e noi e gli uomini rispondevamo: «Amen». Mio padre rimase a braccia conserte, fermo come una statua davanti a noi fino alle sette di sera, e tutti pregavano perché avevano paura di mio padre e perché volevano bene a Chico. Alle sette di sera, mentre il sole cominciava a tramontare, venne una donna a chiamare mio padre. Lo seguii. I tre dottori erano seduti pallidi attorno al letto di Chico: «Peggiora» disse il più anziano. «Non riverà a domattina.»

Mio padre non disse nulla, ma sentii che la sua mano stringeva forte la mia. Uscimmo: mio padre prese la doppietta, la caricò a palla, se la mise a tracolla, prese un grosso pacco, me lo consegnò. «Andiamo» disse.

Camminammo attraverso i campi: il sole si era nascosto dietro l’ultima boscaglia. Scavalcammo il muretto di un giardino e bussammo a una porta. Il prete era solo in casa e stava mangiando al lume della lucerna. Mio padre entrò senza levarsi il cappello.

«Reverendo» disse mio padre «Chico sta male e soltanto il buon Dio può salvarlo. Oggi, per dodici ore, sessanta persone hanno pregato il buon Dio, ma Chico peggiora e non arriverà a domattina.» Il prete guardava mio padre con gli occhi sbarrati. «Reverendo» continuò mio padre «tu soltanto puoi parlare al buon Dio e fargli capire come stanno le cose. Fagli capire che se Chico non guarisce io gli butto all’aria tutto. In quel pacco ci sono cinque chili di dinamite da mina. Non resterà più in piedi un mattone di tutta la chiesa. Andiamo!»

Il prete non disse parola: si avviò seguito da mio padre, entrò in chiesa, si inginocchiò davanti all’altare, giunse le mani. Mio padre stava in mezzo alla chiesa, col fucile sottobraccio, a gambe larghe, piantato come un macigno. Sull’altare ardeva una sola candela e tutto il resto era buio. Verso mezzanotte mio padre mi chiamò: «Va’ a vedere come sta Chico e torna subito».

Volai fra i campi, arrivai a casa col cuore in gola. Poi ritornai e correvo ancora più forte. Mio padre era ancora lì, fermo, a gambe larghe, col fucile sottobraccio, e il prete pregava bocconi sui gradini dell’altare. «Papà» gridai col mio ultimo fiato. «Chico è migliorato! Il dottore ha detto che è fuori pericolo! Il miracolo! Tutti ridono e sono contenti!» Il prete si alzò: sudava e il suo viso era disfatto.

«Va bene» disse bruscamente mio padre.

Poi, mentre il prete guardava a bocca aperta, si tolse dal taschino un biglietto da mille e l’infilò nella cassetta delle elemosine. «Io i piaceri li pago» disse mio padre. «Buona sera.»

Mio padre non si vantò mai di questa faccenda,ma al Boscaccio c’è ancora oggi qualche scomunicato il quale dice che, quella volta, Dio ebbe paura.

(grazie sempre a Giovannino Guareschi)

La stagione delle piogge

“Una singola morte è una tragedia, un milione di morti sono statistica.”

Cortelà son dieci case sparse e tutt’attorno vigne.

C’abitava Renato Turetta.

Renato è morto l’altro giorno a 67 anni, dopo un mese e più che l’avevano portato in ospedale.

Giocava sempre a carte con “el Moro”, che poi era il soprannome con cui a Vo’ chiamavano Adriano Trevisan, il primo decesso diagnosticato in Italia per quella cosa lì che c’abbiamo tra i piedi, che è così veloce e stronza che arriva fino a Cortelà e manco te ne accorgi.

“Una singola morte è una tragedia, un milione di morti sono statistica.”

Io c’ho sempre un po’ le vertigini davanti ai numeri grandi ed è per quello che cerco di aggrapparmi alle cose più piccole, che riesco a vedere meglio, a capire meglio, senza prendere degli svarioni da far girare la testa.

E allora torno sempre a Vo’, con i suoi 3.300 abitanti, un poco meno che qui dove abito io, magari dove state voi.

Lì è successo che, subito dopo che è morto el Moro, hanno testato tutti e alla fine è venuto fuori che c’erano altri 87 contagiati. Fa più o meno il 3% dell’intera popolazione di Vo’.

Più della metà di quelli contagiati è risultata “asintomatica”, che poi vuol dire che stava bene, non c’aveva neanche il raffreddore. Una quarantina di persone insomma, ignare e contagiose.

Finita la quarantena (di due settimane) tutti quelli di Vo’ hanno rifatto il test e i contagiati erano rimasti solo 7 (anche qui asintomatici). Che è lo 0,002% o per meglio dire il “due per mille”.

Un gran risultato, che ci deve far sperare. Ma sperare con attenzione e prudenza.

Alla fine delle due settimane, se non ci fossero stati i test, “gli asintomatici sette” sarebbero usciti dalla quarantena continuando la loro vita di prima: girando, lavorando, abbracciando, giocando e contagiando gli altri 3.000 e rotti abitanti di Vo’ che non avevano ancora contratto la malattia al primo giro.

Questa è la brutta notizia.

Dobbiamo fare ogni sforzo di isolamento in queste settimane, ogni sforzo possibile perché serve e servirà. Ma non basta.

Se non ci attrezziamo, la giostra continuerà a girare.

Il nostro orizzonte non può essere il 3 aprile.

Non è che da quella data riparte la vita di prima. Questo è bene che ce lo diciamo con sincerità.

Ma occorre prepararci da ora, subito, immediatamente, con una strategia che ci porti fuori dall’emergenza.

E questa strategia, come ha detto Andrea Crisanti dell’Università di Padova (uno che i test ce li aveva pronti il 18 gennaio e voleva farli a chi tornava dalla Cina, ma gli hanno detto di no), si chiama “sorveglianza sanitaria attiva di massa” che passa anche attraverso la nostra capacità di fare e analizzare migliaia e migliaia di tamponi al giorno, in ogni parte d’Italia. Bisogna attrezzarsi per quello, investirci soldi e risorse. Subito.

E’ un po’ come gli incendi nei boschi.

La nostra urgenza ora è spegnere questo grande incendio che minaccia le nostre case, le nostre città, il nostro vivere.

Ma viviamo e vivremo per diverso tempo in una stagione secca, su una terra arida e pronta al primo colpo di vento a riprender fuoco.

Dobbiamo attrezzarci con risorse umane e materiali per capire in tempo reale dov’è più forte il pericolo. Spegnere sul nascere la più piccola fiamma e far terra bruciata intorno.

Solo così un giorno torneremo a raccontare le morti come tragedia e non come statistica.

E poi arriverà, finalmente, la stagione delle piogge.

Siamo noi, tocca a noi.

Ieri, nel mio piccolo angolo di provincia emiliana, il paese reale e quelle virtuale si allarmavano per il primo caso positivo a Covid-19, individuato a pochi chilometri di distanza e subito teletrasportato qui dal passaparola.

E’ dovuto intervenire il sindaco per smentire e c’è stato pure lo scatto fotografico con abbraccio al falso contagiato. (l’ultima cosa da fare in questo momento è comunque abbracciare un sindaco o amministratore locale, vera categoria a rischio, stando alle statistiche e alla cronaca).

La verità è che probabilmente anche qui, nel piccolo angolo di provincia emiliana, arriverà Covid-19 se non c’è già arrivato.

In Corea del Sud hanno fatto finora circa 140.000 tamponi e hanno scovato 5.800 contagiati. I morti sono 35.

Il rapporto quindi è di un 4% tra test e contagiati e 0,6% tra contagiati e decessi.

In Veneto, dove con il caso di Vo’ i test sono stati molti e generalizzati, su 10.500 tamponi hanno scovato 360 contagiati, ovvero un rapporto del 3,4% e i morti sono stati 6 (1,6% rispetto ai contagiati)

Sono numeri simili al dato coreano, ma molto diversi da quelli lombardi ed emiliani, luoghi dove i tamponi vengono fatti solo in casi mirati.

Se si cercano di portare (certamente con tutta l’approssimazione del caso) i numeri della mortalità veneti e coreani sull’Emilia e la Lombardia, si arriva ad ipotizzare un numero di contagiati totali decisamente maggiore.

Sono persone probabilmente con sintomi lievi o quasi del tutto assenti, ma possibile, inconsapevole fonte di contagio.

Non sono altro da noi, possiamo essere noi. Siamo noi.

E’ per questo che la dolorosissima operazione (dal punto di vista economico, sociale e culturale) di “distanza sociale” deve essere rispettata il più possibile.

Siamo noi, tocca a noi.

La piccola vedetta lombarda (che non c’era)

Prima gli italiani.

E’ domenica mattina e il conteggio a sabato 29 febbraio ha superato i 1.100 contagiati.

Siamo il terzo paese dopo Cina e Corea del Sud.

Il primo del mondo occidentale.

Perché è successo ?

Un colpo di sfortuna ? Errori ? Impreparazione ?

Probabilmente un gran frullato di tutto questo.

La sorte del focolaio occidentale è toccata al quel quadrilatero di paesini e paesoni di provincia che vivono al limite della grande metropoli tra Lombardia ed Emilia. E’ stato un caso, ma è successo.

Mentre noi tenevamo d’occhio con piglio risoluto le patrie frontiere, il virus di Covid-19 vagava già veloce nella bassa padana.

Ce ne siamo accorti per caso dieci giorni fa, perché un ragazzone grande e grosso che andava sempre di corsa, improvvisamente non aveva più fiato.

Abbiamo attaccato a Mattia M. il numerino di paziente 1, ma le evidenze ormai dicono che era solo l’anello di una catena ben più lunga.

Avevamo schierato i gendarmi con i pennacchi e con le armi, ma quello che ci serviva era una piccola vedetta lombarda.

Il 22 gennaio il Ministero della Salute emette la sua prima circolare operativa (per i medici e gli operatori del servizio sanitario) per la segnalazione di casi sospetti di Covid-19 sul territorio nazionale e identifica tre casistiche.

Nel primo e nel terzo caso i pazienti ammalati con determinati sintomi possono essere segnalati solo se hanno avuto contatti diretti o indiretti con la Cina.

Il punto numero 2 invece chiede di segnalare anche chi “manifesta un decorso clinico insolito o inaspettato, soprattutto un deterioramento improvviso nonostante un trattamento adeguato, senza tener conto del luogo di residenza o storia di viaggio, anche se è stata identificata un’altra eziologia che spiega pienamente la situazione clinica“.

In sostanza: se avete delle polmoniti che non vi spiegate facciamo il tampone.

Il 27 gennaio il Ministero della Salute emette una circolare per precisare quella del 22 gennaio.

In quei cinque giorni deve essere successo qualcosa. Qualcosa che ha a che fare con il numero di segnalazioni.

Lo si capisce a colpo d’occhio guardando la pagina: tutte le congiunzioni sono sottolineate, come a dire: volete capire che non basta che il paziente abbia la polmonite ! Deve anche avere anche tutte le altre altre condizioni, ovvero contatti diretti o indiretti con la Cina.

E lo si capisce anche dall’elemento principale: il punto 2 è sparito.

Vuol dire: non segnalate casi anomali di polmonite.

Guardavamo un orizzonte lontano, senza prestare attenzione al vicino.

E’ vero siamo in una situazione complicata e mutevole, ma non è stata solo sfortuna.

Ammetterlo è il primo passo per uscirne, questa volta e le prossime, tutti insieme.