Il caso Ilaria S.

Nel grande e spesso inutile rumore di fondo che il giornalismo italiano produce, ho cercato di mettere insieme un po’ di fatti ed elementi, per cercare di capire io per primo (o tentare di capire per quello che si può) il caso Ilaria S.

Garázdaság

Fa freddo l’11 febbraio, ma c’è un po’ di sole tra le nuvole.

E’ quasi ora di pranzo.

Cinque amici sul marciapiede devono decidere dove andare a mangiare un boccone.

In un bar poco distante vedono dei tizi tutti bardati.

Una roba strana anche per loro che lì ci vivono.

Qualcuno forse scatta una foto con il telefono.

Sono quasi le 13.00. Il posto l’hanno deciso e si incamminano.

A tavola non c’arrivano.

Prima e d’improvviso arriva l’assalto di quei tizi tutti bardati.

Spinte, insulti, pugni, calci in faccia: “se non la smetti di urlare ti ammazzo“.

Uno degli amici, tre uomini e due donne, riesce a correre via qualche metro e a richiamare l’attenzione della polizia lì vicino.

C’è un sacco di polizia quel giorno per strada.

I tizi scappano, ma non vanno lontano.

I referti dell’ospedale alla fine parlano di ferite al cranio, commozione cerebrale, mandibola fratturata, naso, denti ed ossa rotte.

La polizia ferma tre persone.

Nella conferenza stampa, due giorni dopo, a domanda del giornalista il responsabile della polizia risponde che i tizi tutti bardati sono stati scarcerati dopo 48 ore: rimangono indagati a piede libero per lesioni personali e per “garázdaság” che è traducibile come una via i mezzo tra “disordini” e “disturbo della quieta pubblica”.

“No” ribadisce, non sono indagati per “közösség tagja elleni eroszak”.

Loro no.

Per quella roba lì sono invece stati arrestati alle 16.25 dell’11 febbraio, tre ore dopo, 4 persone.

Rimangono in custodia perché accusate, tre di loro, di lesioni personali potenzialmente mortali e appunto di “közösség tagja elleni eroszak”.

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Lost in translation.

“Közösség tagja elleni eroszak”

Come può accadere con le traduzioni letterali ed automatiche in italiano “violenza contro un membro della comunità” non ci dice niente di significativo, anzi.

Più comprensibilmente è traducibile come un crimine d’odio verso una minoranza.

E’ una pesante aggravante di un reato.

Se meni a sangue uno per strada e lo fai perché senza volere ti ha urtato, non è una “violenza contro un membro di una comunità”. Se meni a sangue uno per strada perché ce l’hai con i rom, con gli omossessuali, con gli immigrati o una qualsiasi minoranza invece lo è.

Anche se quella minoranza sono i nazisti dell’Illinois o di Budapest.

I tizi tutti bardati e liberati dopo 48 ore per aver menato a sangue i cinque amici che stavano decidendo dove andare a pranzo, erano anche loro membri di una specie di minoranza.

Ma non erano nazisti dell’Illinois.

Erano nazisti di Budapest.

Il Betyársereg è una formazione paramilitare dell’ultra destra che co-organizza e funge da specie di servizio d’ordine per le manifestazioni del kitörés (il tentativo dei nazisti e dei collaborazionisti di rompere l’assedio di Budapest del 1945).

Di “violenza contro un membro di una comunità” se ne intendono. Le minoranze che preferiscono per le loro attività sono rom, omosessuali, immigrati.

L’11 febbraio 2023 alle 14.37 uno dei tanti media online della destra ungherese pubblica un aggiornamento della sua diretta del kitörés e dice che in piazza Széll Kálmán quelli del Betyársereg hanno sistemato per le feste un gruppo di antifascisti.

Erano i cinque amici picchiati a sangue da in quello che la polizia ha derubricato ad una specie di rissa per futili motivi.

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L’assedio

Fa freddo l’10 febbraio, ma c’è un po’ di sole tra le nuvole

E’ quasi ora di pranzo.

Zoltàn T. dopo essere passato dalla posta a ritirare alcuni assegni si avvia verso il posto di lavoro.

Mentre si incammina succede una roba strana anche per lui che lì ci vive.

Una giovane ragazza si avvicina e gli chiede in ungherese se avrebbe partecipato alle celebrazioni del kitörés. Zoltàn risponde che alcuni amici andavano, ma lui no, il giorno dopo doveva lavorare.

Al lavoro non ci arriva.

Prima e d’improvviso arriva l’assalto di un gruppo di tizi tutti bardati.

Spinte, insulti, pugni, calci in faccia, manganellate.

Una manciata interminabile di secondi e via, i tizi scappano.

Tutto viene ripreso dalle telecamere di sicurezza di un negozio.

Il video compare qualche ora dopo sui siti dell’ultradestra ungherese.

La polizia a questo punto non ha dubbi: è una “violenza contro un membro di una comunità”. Per gli assalitori Zoltàn T. era o sembrava un membro di quella minoranza lì: un nazista di Budapest.

Da un punto di vista giudiziario non importa se lo è davvero: tutto dipende da cosa credono gli assalitori.

La polizia a questo punto collega anche un altro episodio avvenuto il giorno prima, il 9 febbraio, in un’altra piazza di Budapest: tre polacchi malmenati con più o meno le stesse modalità.

E collegherà poi anche due pestaggi avvenuti qualche ora dopo, nella notte tra il 10 e 11 febbraio, in due luoghi diversi e distanti della città ai danni di due coppie, una ungherese e una tedesca, che rientravano a casa dallo stesso evento.

Era un concerto.

Un concerto doppio in cui ad esibirsi sul palco c’erano gli Hundriver ed Ewiger Sturm.

I primi sono un piccolo gruppo nazirock ungherese con qualche esibizione all’attivo anche in Italia, dove non hanno mancato di farsi fotografare nella Cripta Mussolini a Predappio. La seconda è una giovane cantautrice svizzera (Ewgider Sturm è un nome d’arte) con un repertorio ed un’estetica neo-nazi.

Del resto il concerto era organizzato dalla sezione ungherese di “Blood & Honour” nell’ambito delle iniziative per il kitörés. L’evento era pubblicizzato senza indicare il luogo di esibizione. Ma era un segreto forzatamente mal custodito. Di quella sera infatti ancora oggi in Rete si trova un ampio catalogo di foto scattate con teleobbiettivo, all’interno di una specie di appostamento attuato da una organizzazione che monitora gli eventi di estrema destra in Europa.

In sostanza chi ha pedinato e poi aggredito le due coppie sapeva chi stava colpendo.

Le aggressioni sono avvenute a mezzanotte ed un quarto in via Mikò e intorno a mezzanotte e mezza via Bank. Vista la distanza dei luoghi e mezzi pubblici per raggiungerli i gruppi di aggressori dovevano essere due.

In via Bank una delle due vittime è Laszlo Dudog, musicista membro della sezione ungherese di “Blood & Honour”, tifoso laziale, ammiratore del duce. Le foto del suo volto tumefatto subito dopo l’aggressione, sono state pubblicate anche in Italia.

Già la mattina del 11 febbraio i media ungheresi cominciano a parlare di responsabilità di “antifascisti tedeschi”.

Ed è in questo clima che la polizia si appresta ad affrontare qualche ora dopo la giornata dell’11 febbraio, la giornata del kitörés.

Le celebrazioni dei nostalgici nazisti sono state vietate quasi del tutto. Si tengono principalmente fuori dal centro storico di Buda. L’unica manifestazione autorizzata è il presidio antifascista presso la chiesa evangelica di Bècsi Kapu, un luogo significativo: è la via di fuga tentata dall’esercito nazista e dai collaborazionisti per rompere l’assedio della città l’11 febbraio 1945.

Al presidio ci sono un centinaio di partecipanti: ungheresi, ma anche tedeschi ed italiani. Uno dei primi cori ad essere intonati per qualche minuto è proprio in italiano: “siamo tutti antifascisti” accompagnato dal ritmo dei tamburi.

C’è una folta presenza di polizia a controllare e ad evitare il contatto con quelli del Betyársereg, che hanno deciso di appostarsi in attesa qualche decina di metri più in là, in segno di sfida (e ad un certo punto tenteranno anche di attaccare alcuni manifestanti antifascisti che si allontanavano da Bècsi Kapu).

Il presidio ha il permesso delle autorità fino alle 16.00 dell’11 febbraio. A quell’ora viene sciolto. Molti partecipanti vengono identificati dalle forze dell’ordine.

Pochi minuti dopo, in piazza Batthyány a qualche centinaio di metri da Bècsi Kapu, la polizia individua tre persone sospette e le segue dentro la fermata della metro. I tre scendono due fermate dopo a piazza Deàk e prendono un taxi che la polizia intercetterà un chilometro dopo in viale Teréz.

Sono le 16.25 dell’11 febbraio.

A Budapest fa freddo. Il sole, tra le nuvole, comincia a calare all’orizzonte.

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Rosso è il colore

“Grazie ad un’ampia raccolta di dati è stato identificato un altro sospetto autore del reato; la cittadina ungherese di 42 anni, anch’essa di idee antifasciste, è stata arrestata nel suo appartamento, poi è stata anche interrogata e presa in custodia per il fondato sospetto di “violenza contro un membro della comunità”.

Il 13 febbraio in quella conferenza stampa la polizia mette in fila le sue certezze ed evidenzia la sua capacità di una risposta rapida ai fatti di quei giorni.

Oltre ai 3 fermati sul taxi è stata arrestata anche Krisztina D. il cui nome completo verrà svelato di lì a poco sui media di estrema destra ed identificata come un’attivista di un movimento di sinistra (Szikra) e collaboratrice di un deputato di quel movimento.

Nella conferma di arresto, i giudici sottolineano come le prove a suo carico siano, come dire, piuttosto evidenti e con poco margine d’errore.

Krisztina D. viene rimessa in libertà il 24 febbraio 2023, due settimane dopo, rimanendo indagata.

Viene completamente prosciolta il 27 aprile 2023.

Le prove granitiche contro lei erano:

“Il sospettato ha messo “Mi piace” ad un post su Facebook contro la Giornata dell’Onore, che peraltro non incitava alla violenza, e le autorità inquirenti hanno poi notato che la sua foto del profilo la mostrava con indosso la stessa giacca e sciarpa degli autori degli “attacchi antifascisti” presenti nelle registrazioni video. La corte stessa è convinta che questa giacca e questa sciarpa siano esattamente identiche, e ci sono pochissime possibilità che qualcun altro le avrebbe indossate contemporaneamente.” (dal comunicato stampa della corte metropolitana di Budapest).

Due settimane di carcere e mesi sotto indagine per un “Mi Piace” ad un post su un social e il colore di una giacca e una sciarpa (che per inciso solo con molta fantasia si potevano considerare identici).

Krisztina D. riuscirà a dimostrare di non essere nemmeno a Budapest nel momento degli attacchi di cui era accusata e che in quel video lei non c’era proprio.

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Un lungo parto

Il 31 ottobre 2023, quasi 9 mesi dopo, la procura di Budapest chiude le indagini sui fatti di febbraio 2023.

Spicca 14 mandati di cattura internazionale a carico di 2 italiani, 1 albanese, 1 siriano e 10 cittadini tedeschi.

E poi porta a processo i tre arrestati dell’11 febbraio.

Per due imputati l’accusa si riduce ad una generica partecipazione ad una organizzazione criminale, senza alcuna accusa per atti specifici.

Per l’ultimo degli arrestati le cose vanno diversamente.

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Ilaria S.

Un asterisco che porta in fondo alla pagina scritta fitta fitta in corsivo: “violenza contro un membro della comunità”.

E’ la frase precisa che Ilaria S. scrive nella lettera che riesce a far uscire dal carcere dopo otto mesi (8 mesi) dal suo arresto alle 16.25 dell’11 febbraio 2023.

L’ha tradotta o glie l’hanno tradotta letteralmente quell’accusa.

Dalla lunga lettera scritta il 2 ottobre 2023, ma trapelata molte settimane dopo, si evincono le condizioni in cui la detenuta italiana (e fino a prova contraria innocente) è trattenuta nel carcere di Budapest.

Si intravedono nelle parole di Ilaria S. molti elementi dell’universo penitenziario comuni a diverse latitudini e longitudini: la lentezza dei processi burocratici, le piccole ed inutili crudeltà delle prassi, le fredde rigidità delle procedure quotidiane, il personale sottorganico, la fatiscenza di strutture e servizi.

La galera, nuda e cruda, in un paese che non brilla per il rispetto dei detenuti e dei diritti civili.

In più si intravede lo spaesamento per una situazione a tratti kafkiana, dove la lingua è un ostacolo non solo ad una decente esistenza quotidiana ma anche al diritto alla difesa: non puoi frequentare i corsi per imparare l’ungherese, perché sei straniera e non sai l’ungherese.

Ilaria S. appare un foglio di carta stropicciato, in balia delle onde agitate di un processo che per molte ragioni in Ungheria non può più essere ridimensionato a garázdaság.

Il 29 gennaio, nel corso della prima udienza del processo, Tobias E. ha accettato di dichiararsi colpevole di appartenere ad una associazione criminale. Mirava ad ottenere una pena lieve per poter essere finalmente scarcerato e rimandato in Germania dopo quasi un anno di carcere duro.

Gli hanno invece dato 3 anni e quindi rimane in cella in attesa dell’appello.

Anna W. ha rifiutato lo stesso accordo per la stessa accusa e si è dichiarata innocente. E’ tornata a casa in Germania dove è stata fin dal 13 febbraio 2023, non essendo mai stata arrestata.

Ilaria S. si è dichiarata innocente.

La principale accusa contro di lei è di essere la figura femminile che nel video del 10 febbraio tenta di tenere le gambe di Zoltàn T. mentre altri lo colpiscono con dei manganelli.

“Közösség tagja elleni eroszak” ovvero violenza contro un membro della comunità.

Rischia in teoria fino a 20 anni di carcere.

Nel frattempo rimarrà in cella per un processo che si annuncia lunghissimo. Prossima udienza il 24 maggio, poi forse una in autunno.

Lost in translation.

Lost in Budapest.

 

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