Alla fine, Tibet

Good morning.
Good afternoon.
No, good morning, ripeto guardandomi il polso.
Good afternoon e poi il poliziotto cinese che scruta il mio passaporto mi indica l’orologio sul muro.

La Cina ha portato in Tibet anche il fuso orario di Pechino. Sei ore avanti rispetto all’Italia. Due ore e un quarto in piu’ di Kodari, Nepal che sta li sotto a qualche metro.

Telecamere ovunque alla frontiera di Zagmu. Lo zaino passa sotto lo scanner, la doganiera si distrae un poco ad ascoltare noi che parliamo italiano. Quello che doveva passare e’ passato senza problemi.

Zagmu non e’ piu’ Tibet da molto tempo se mai lo e’ stata. E’ una specie di Chinatown appiccicata al fianco ripido della montagna. I lineamenti tibetani affogano nel mare di visi di etnia Han.

La signora del ristorante dove pranziamo non conosce una parola di tibetano e di inglese. E’ stata catapultata qui da chissa’ quale parte della grande Cina.

Il budello polveroso di Kodari sembra lontano chilometri con tutto questo asfalto. L’impero cura le proprie strade anche nelle province piu’ remote.

La strada si infila nella gola stretta, sotto il correre del fiume. Qui e’ ancora sterrato ma e’ tutto un lungo cantiere. Fra un anno anche questo pezzo di Tibet sara’ asfaltato e la via per Lhasa completa.

Scrivo da Nyalam, 3.700 metri, porta dell’altipiano tibetano.

L’ultimo sole illumina le montagne. Intorno c’e’ finalmente aria di Tibet.